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Antonio Castagna

Nell’area di libero scambio, al Balon, canale Molassi, il sabato, e in via Carcano la domenica, gli operatori sono tutti non professionisti. Si tratta di circa 800 persone, che svolgono attività vendita di beni usati come forma di integrazione al reddito, oppure, in alcuni casi, come attività principale, come succede per i rovistatori, per i quali il recupero e la commercializzazione di quanto ritrovano con l’attività di svuotamento di cantine e soffitte e nella ricerca nei cassonetti è praticamente l’unico modo per accedere a un reddito.

Nel caso dell’area di libero scambio, che costituisce una parte del Balon, si tratta di un commercio di oggetti che hanno, perlopiù, valore residuale e dunque prezzi bassi e accessibili anche a fasce di clientela povera.

I clienti, sommando le due location, sono circa 10.000 ogni settimana, italiani, stranieri, poveri e meno poveri. L’istituzione dell’area di libero scambio, a partire dal 2000, ha consentito innanzitutto di dare visibilità a quella zona grigia che si era creata con la cancellazione delle autorizzazioni ai “rottamai” a seguito di una modifica legislativa, e inoltre di gestire il fenomeno dei venditori abusivi di merce usata, generando un percorso di riconoscimento per chi, operando nel settore informale, rischia sempre di scivolare nell’invisibilità o, in alternativa, nell’illegalità.

Da un paio di anni, la presenza dell’area di libero scambio, nata accanto e come estensione del Balon suscita proteste, rimostranze, paure, forse proprio perché coinvolge e legittima esperienze tipicamente marginali nell’esperienza urbana. I venditori sono persone povere, le merci esposte sono recuperate dalle cantine, quando non dai cassonetti, c’è una quota di abusivi che si accampa ai margini dell’area destinata al commercio. Osservando da lontano l’impressione che se ne ricava può essere di disordine e di sporcizia, che cozza con l’idea di decoro ben rappresentata dai giardinetti condominiali. Gli oppositori lo chiamano suk, con la K, un’etichetta che contiene già un giudizio. La posta in gioco in futuro sarà migliorarlo, rigenerarlo, ripulirlo, costruire un progetto culturale sostenibile e comunicabile, oppure perdere quello che per Alessandro Stillo, vicepresidente dell’Associazione “Vivi Balon” è “un modo, a costo zero per l’Amministrazione, per dare identità e dignità a centinaia di operatori che così si sentono parte di questa città”.

L’area di libero scambio, infatti, genera anche valore economico. Basta un semplice calcolo, al ribasso. Se ognuno degli 800 espositori, ogni settimana ricava almeno 100 €, moltiplicando per 50 settimane nel corso dell’anno, il risultato sono 80.000 € alla settimana e 4 milioni di giro d’affari nel corso di un anno. Il costo per la città di Torino è nullo, anzi, il pagamento delle piazzole frutta alla città circa 120.000 € all’anno, mentre lo spazzamento e pulizia sono pagati (altri 120.000 € l’anno circa) dalla stessa associazione “Vivi Balon” che si è aggiudicata la gestione. Anche gli operatori in pettorina gialla, che garantiscono accoglienza e monitoraggio, sono a carico di “Vivi Balon”. Tutto questo grazie a merce, 10.000 tonnellate l’anno all’incirca, che altrimenti sarebbe destinata a marcire in cantina o nelle discariche.

Raccontata in questo modo l’area di libero scambio potrebbe sembrare un orizzonte ideale, mentre sarebbe importante conservare uno sguardo strabico, capace di riconoscerne insieme sia il valore che le criticità, sguardo strabico che nel furore della polemica si perde, costringendo a schierarsi, con o contro.

Alessandro Stillo, vicepresidente dell’Associazione Vivi Balon, durante una passeggiata al mercato, prova a restituirne un racconto problematico, dalle origini dell’area di libero scambio, grazie al Progetto “The Gate” e all’azione dell’allora Direttore Ilda Curti, a oggi, con il moltiplicarsi degli operatori, la difficoltà di trovare una nuova sede per il mercato domenicale, con la crescita delle povertà che fa aumentare sia il numero di coloro che vendono che il numero di coloro che acquistano.

Eppure, in tutto questo, resta sempre da salvare quello che è il valore principale di un mercato come il Balon, secondo Stillo: “un incontro di popolo, la possibilità di generare una connessione con la vita popolare, attraverso giacche, pentole, scarpe, oggetti di uso quotidiano. Una ricchezza culturale ed emotiva che si crea grazie all’esperienza della contrattazione, che non è, come sempre nell’esperienza dei suq mediorientali, una modalità per strappare un prezzo migliore, ma un modo per generale una relazione tra persone”.