Giuseppe Iasparra

Dopo la prima puntata, torniamo a parlare del rapporto tra cinema e riuso insieme a Giuseppe Mazza, pubblicitario, fondatore dell’agenzia Tita. Questa volta, partendo dal linguaggio cinematografico, proviamo anche ad allargare il raggio d’azione ad altre forme di comunicazione:

Nel rapporto tra cinema e riuso, come diceva nella precedente intervista, esistono altre accezioni, più narrative, per esempio il riutilizzo di storie già raccontate, o di personaggi che ritornano. Ce le può raccontare?

Beh, c’è chi pensa che l’intera nostra esperienza culturale sia basata sulla rielaborazione infinita degli stessi elementi, un continuo rimescolamento del passato in forme sempre nuove. Ma questo ci porterebbe lontano. Per stare invece al cinema, e ai giorni nostri, alcuni fenomeni sono sotto gli occhi di tutti: per esempio il cosiddetto reboot, ovvero la ripartenza di una stessa storia con nuovi interpreti e nuovi trattamenti – pensa solo a quanti Uomo Ragno hai visto negli ultimi anni – oppure la recente esplosione della serialità, da Harry Potter a Game of Thrones, che sfruttando un’unico mondo narrativo è uno dei punti di incontro più precisi tra intrattenimento e industria (anche se non va dimenticato che in fondo pure Omero raccontava serial). Da ciascuno di questi riutilizzi di un’unico plot, poi, sortiscono gadget e declinazioni merceologiche di cui si perde il conto. Il che, volendo, aumenta anche l’impatto ecologico delle storie!

In questo senso rientrano anche luoghi e mestieri legati al mondo del riuso?

Su due piedi mi viene in mente, e torno alla Pixar della quale abbiamo già parlato, l’anziano riparatore di vecchi giocattoli in Toy Story 2, una sorta di chirurgo del passato. A proposito, il dottor Frankenstein e il suo mito cinematografico non sono anche un simbolo della reinvenzione? Nuova vita alla materia. Ma anche Mel Brooks, diventato clochard, impegnato in un tenero balletto in un magazzino di stracci in Che vita da cani! Il deposito di scarti è il luogo del riscatto, lì le storie rinascono e gli oggetti reclamano attenzione. C’è un film di Ferreri, Il Seme dell’uomo, nel quale il protagonista sfugge a una catastrofe che minaccia il genere umano di estinzione: in una casa abbandonata crea un museo delle cose che hanno perduto l’utilizzo, per conservarne memoria.

Proviamo ad allargare il raggio d’azione. Quanto emerso nel rapporto tra cinema e riuso si riscontra anche in altre forme di comunicazione?

Certo. La pubblicità, giusto per accennare brevemente, non fa che mettere al centro la vitalità insospettata degli oggetti. Tutto può diventare qualcos’altro, dai frutti di Esselunga che diventano personaggi alle cravatte che camminano da sole. In effetti possiamo affermare che in comunicazione la natura morta non esiste. Perché non esiste staticità assoluta. Ikea di recente ha riutilizzato una suo vecchio spot su una lampada per invitare a riusarla invece di buttarla. Ma questo è qualcosa su cui l’arte contemporanea riflette da tempo: non è un caso se gli oggetti che si muovono autonomamente in “The way things go” del duo svizzero Fischli e Weiss sono stati ripresi in una campagna Honda, nella quale tutte le componenti dell’auto si imprimono movimento a vicenda. Insomma, come avrai già capito, anche qui si fa lunga! D’altra parte forse è naturale che il discorso sul riuso sia di per sé senza conclusione…